Accontentiamola seguendo la direzione per Santadi: le grotte di Is Zuddas offrono l’emozione della Sala dell’Organo con una colonna di stalattiti e stalagmiti che ricorda lo strumento a canne, il bianco abbagliante della Sala delle Eccentriche, gli ambienti solenni della Sala del Teatro. Da Santadi a Giba, riguadagnata la costa, l’istmo di Sant’Antioco permetterà di raggiungere l’ex isola (il collegamento è artificiale) che ci ricollega ancora ai commerci e agli approdi dei Fenici. Un museo, con due splendidi leoni scolpiti, gioielli e altri elementi dei corredi funebri, testimonia queste presenze insieme ai passaggi dei soliti Punici e Romani. Altrettanto succede con la necropoli, carica di leggende ormai sfatate sul sacrificio dei bambini. Da non trascurare, però, il santuario dedicato a Sant’Antioco, che unisce le catacombe paleocristiane alle tracce altomedievali e ai dettami del barocco. Calasetta, sulla sponda opposta dell’isola collegata alla terraferma, ha la fisionomia squadrata voluta dal progettista che la ideò e fece costruire tutta insieme, a fine Settecento. Dal suo porticciolo salpano i traghetti per Carloforte, approdo nell’isola di San Pietro. I tonni trovavano in queste acque le reti e gli arpioni della mattanza: la pesca non è scomparsa, ma la vocazione turistica ha modificato orizzonti e attività dei carlofortini. La bellezza delle coste rocciose, l’erosione del mare che s’insinua creando pozze, grotte, tagli sulle falesie e su pareti a strapiombo continua infatti a conquistare gli animi dei visitatori. Sbarcando a Portoscuso, accesso alternativo all’isola di San Pietro, è il Sulcis delle miniere e dell’industria in crisi a farsi incontro. Carbonia, altra creazione sorta dal nulla in pochi mesi, rivela la nascita in epoca fascista con architetture che oggi trovano occhi disposti ad apprezzarne gli equilibri senza turbamenti ideologici. Iglesias gioca invece la carta delle sue glorie medievali per sedurre i viaggiatori che la sfiorano. La cattedrale di Santa Chiara, la chiesa di San Francesco, il santuario di Santa Maria delle Grazie, il castello di Salvaterra e un centro storico accattivante sostengono le aspirazioni di questa città. Poco rimane, al contrario, della vita altomedievale di Domusnovas: la grotta di San Giovanni, attraversata da una strada asfaltata, è comunque una ragione sufficiente per farci tappa. L’interesse per il Medioevo propone allora una lunga deviazione fino al castello di Sanluri, l’unica integra fra le fortezze sarde dell’epoca. Al suo interno, un Museo del Risorgimento e delle armi viene curato dalla famiglia che possiede il maniero. Antichi fasti appartengono pure a Villamar, che nei secoli dei Giudicati sardi fu capoluogo della curatoria di Marmilla. Che si parli ancora di Medioevo sarà chiaro osservando la particolarissima chiesa, dedicata a San Pietro ed edificata da maestranze arabe in arrivo dalla Spagna. Nello stesso paese, ma in un’altra chiesa, l’età moderna porterà uno dei migliori esiti della pittura sarda di tema sacro; è il 1518 quando Pietro Cavaro dipinge per l’altare della parrocchia di San Giovanni il suo elegante Retablo della Vergine. Sardegna vuol dire però soprattutto gente dei nuraghi. Dunque, da Guspini a Villamar, a Villanovaforru, a Sardara, a Barumini, il popolo dei bronzetti e delle pietre sovrapposte ritorna in musei, scavi, rievocazioni che illustrano questa civiltà di re pastori, sacerdoti, schiavi e artigiani. Una civiltà che nel villaggio di Barumini, raccolto intorno a un nuraghe possente, concepito come un baluardo contro gli aggressori, trova la sua spettacolare apoteosi.
Testi di Francesco Luzzi