La giovinezza
Nel 1983 Alberto Rodriguez, redattore della pagina culturale de L’Unione Sarda, e Manlio Brigaglia, collaboratore del quotidiano cagliaritano, chiesero al professor Giovanni Lilliu di raccontare come e quando avesse scoperto il villaggio nuragico di Barumini. Lilliu accettò di buon grado e scrisse un affascinante racconto nel quale le memorie dell’infanzia e dell’adolescenza, la ricerca delle proprie radici appaiono fuse con la prima, innocente, fantasiosa iniziazione archeologica e con un senso profondo e magico della vita.
L’esistenza delle antiche vestigia di Barumini era già nota agli studiosi dell’Ottocento, ma poi nel corso del tempo se ne era persa la memoria e quella collina artificiale ai bordi del paese sotto la quale dormiva nascosto il grande nuraghe veniva arata sino alla sommità.1 Quando, studente liceale, scorrazzava nei mesi estivi in bicicletta per i sentieri sassosi e per i campi, Lilliu provava una strana attrazione per quella misteriosa protuberanza: «Mi capitava – scrisse in quel 1983 – di salire dal “fosso” del paese […] al colle del nuraghe, arioso e battuto dal maestrale, e di fermarmi a guardarlo, fra lo stupore e il mistero ». Si diceva che i suoi sotterranei fossero abitati dalla terribile Mosca Macedda, un mostruoso insetto, annidato sotto terra, che un giorno, se disturbato, moltiplicandosi a dismisura, avrebbe invaso a sciami di locuste campagne e villaggi seminando fame e distruzione. «Beninteso, io non credevo in queste bubbole – ricorda Lilliu –, però mi piaceva che restasse quel brano di cultura tradizionale in cui il popolo riponeva cieca fede, perché era parte di se stesso». Ai primi del Novecento Su Nuraxi appariva come una sorta di montagnola di terra e di sassi, una collina naturale che di giorno costituiva un «punto di riferimento» per il paese e di notte appariva come «la casa dei fantasmi per tutto quel di arcano» che «vi immaginava la gente». Nelle notti d’estate Lilliu e i suoi giovani amici di Barumini, sdraiati sull’alto della «collina incentrata del nuraghe, sotto la luna, con la compagnia di quanto celava nel suo grembo», cantavano le canzoni alla moda: «In nessuno di noi entrava il sospetto che essa era una cosa somigliante, nelle stratificazioni dell’interno, ai meravigliosi e celebri tell di Troia e del Vicino Oriente; e che le nostre voci e suoni si levavano al disopra di altre voci e suoni cessati per sempre e sepolti nel luogo della nostra romantica sosta musicale e canterina ». I ragazzi erano attratti da una cavità in vista, il “pozzo”, l’unico punto di accesso in quel singolare ammasso di terreno: «Nel “pozzo” ci calavamo con funi […] per cercarvi e cacciarvi strias, ossia gufi e civette che si nascondevano, di giorno, nel buio di incavi aperti nella parete ricurva del vano […]. Sta di fatto che il “pozzo” a forza di frequentarlo mi era rimasto bene in mente. E proprio da esso, diventato io archeologo “soprintendenziale”, feci muovere la ragione dello scavo del contesto monumentale, basandomi sull’aspetto, il calcolo metrico e la posizione del vano de is strias della mia gioventù». Forse senza quella «scoperta prescientifica» del nuraghe di Barumini, senza quell’«impatto infantile, innocente, fantasioso e irrazionale, all’unisono con la cultura del paese», il dottor Lilliu, ormai funzionario della Soprintendenza alle Antichità, non sarebbe riuscito a «scegliere, scavare e divulgare uno dei monumenti protostorici più importanti e significativi dell’Isola e del Mediterraneo occidentale». C’era una sorta di predestinazione in tutto questo, nella singolare coincidenza che lo scopritore del monumento e gli antichi progenitori abitanti
del nuraghe, quasi tremila e cinquecento anni fa, fossero nati a poche centinaia di metri di distanza? Lilliu non l’ha mai negato: «Che nelle cose della storia sia presente, qualche volta, un filo rosso di continuità è possibile. Non di rado in me, quando penso a quel nuraghe del mio villaggio, dei miei morti vicini e lontani, sorge un quid sentimentale in cui si mescolano metastoria e scienza, “fattura” e ragione, destino e scelta, sorte e determinazione».
Il rapporto tra Lilliu e il suo villaggio d’origine è una delle chiavi di lettura per capire la sua complessa dimensione di studioso e di intellettuale cosmopolita, aperto, curioso, dotato di raffinati strumenti analitici ma al tempo stesso profondamente legato all’universo delle proprie origini e all’insieme dei valori più autentici del mondo popolare sardo. A paragonare Lilliu con uno studioso del passato viene spontanea la figura e l’opera del canonico Giovanni Spano, il grande archeologo ed erudito dell’Ottocento che ha rivoluzionato gli studi antichistici e demologici sardi. Entrambi originari di due paesi del profondo mondo agricolo isolano (Ploaghe, Barumini), entrambi hanno compiuto gli studi antichistici alla “Sapienza” di Roma, entrambi dotati di una vocazione per gli scavi e l’osservazione diretta dei siti, entrambi autorevoli esponenti del mondo accademico cagliaritano (Spano fu anche rettore di quella università), entrambi cattolici di idee liberali aperti al confronto con la cultura laica ed ai progressi delle scienze, entrambi grandi organizzatori della ricerca e direttori di importanti periodici storico-archeologici, entrambi appassionati studiosi e cultori (in modo addirittura soverchiante per Spano) delle tradizioni popolari e linguistiche della Sardegna. Lo stesso Lilliu ha riconosciuto il debito della storiografia antichistica sarda nei confronti del canonico ploaghese: con Spano infatti «l’archeologia mitica ed etnica, i cui motivi dominavano nel secolo XIX, si trasforma, in una certa misura, in archeologia tecnica razionale».
Egli introdusse il metodo di scavo stratigrafico non soltanto nell’ambito preistorico ma anche in quello dell’archeologia classica, lasciando precise descrizioni topografiche e considerazioni sulle origini, lo sviluppo e gli assetti delle città romane (Carales, Sulcis, Tharros). Oltre il capillare ricupero dei reperti ritrovati nelle campagne e l’opera di segnalazione di monumenti e di iscrizioni, Spano va valutato soprattutto, secondo Lilliu, come «maestro di vita e di amor patrio, amore della Sardegna ». Ricordando alcuni passi del Bullettino Archeologico Sardo del 1856 e del 1857, nei quali il canonico ribadisce il ruolo della memoria storica nella costruzione dell’“identità” di un popolo («Debito di ogni cittadino è di conoscere la propria terra»; «La memoria del passato forma il carattere delle glorie ed è l’impronta delle sventure dell’isola»), Lilliu sottolinea il valore di questa eredità ideale. Così come quel verso di Orazio, fatto proprio da Spano, che raccomandava: Quod magis ad nos pertinet agitamus. Non a caso la rivista che dirigerà dal 1985 al 1992, Nuovo Bullettino Archeologico Sardo, si porrà fin dal titolo in una linea di continuità col periodico di Spano.
Giovanni Lilliu è nato il 13 marzo 1914 a Barumini, villaggio agricolo della Marmilla, da una famiglia di estrazione contadina: «Nato – come ricorderà egli stesso – tra gli umori della campagna in una famiglia portata per necessità alla concretezza della vita e del lavoro». La mamma era morta durante l’epidemia di “spagnola” del 1917. Frequentate le prime due classi nelle scuole elementari del suo paese, incominciò quella lunga vita di collegio tipica per un bambino di un villaggio sardo negli anni Venti del Novecento. A sette anni e mezzo fu iscritto al collegio dei Salesiani di Lanusei, dove frequentò le tre ultime classi elementari ed il ginnasio. «Ci sono arrivato con una valigia grande il doppio di me e col corredo cifrato. Un incubo: quel letto da rifare ogni mattina; un incubo: i geloni nei piedi e nelle mani. Ma così doveva essere. Fino all’adolescenza. Come si conveniva ad un bambino “che può”. Per imparare: l’analisi logica, il latino, il freddo e la solitudine». D’estate il ritorno al paese. «I risvegli erano corali: campane all’unisono col canto del gallo, alle prime luci dell’alba. E blasfemi ragli d’asino in contraltare. Barumini: un universo totale. Lì è cominciata questa storia. Questa vita».
da "LA COSTANTE RESISTENZIALE SARDA"
a cura di Antonello Mattone