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Giovanni Maria Angioy
Bono è il paese di Giovanni Maria Angioy, alto magistrato, capo del movimento antifeudale del 1795-96, ma anche coltivatore ed imprenditore, esponente di quella intellighentsia europea che vive il drammatico passaggio dalla stagione del riformismo illuminato ai contraccolpi della bufera rivoluzionaria proveniente dalla Francia.
Biografia
Egli nacque il 21 ottobre 1751 dal nobile Pier Francesco e da Margherita. Portò a termine gli studi umanistici nel collegio Canopoleno di Sassari. Contrariamente a quanto hanno sostenuto Pasquale Tola ed Enrico Costa, l'Angioy non si laureò in questa città, dove invece studiò teologia solo per un anno. Cambiata facoltà ed immatricolatosi a Cagliari (come ha sostenuto Antonio Era), vi conseguì la laurea in utroque iure nel 1771. Nella capitale del Regno intraprese subito la pratica forense sotto la guida di uno zio, l'avvocato Salvatore Nieddu Minutili. In seguito chiese di essere aggregato alla Facoltà giuridica all'ateneo cagliaritano senza che fossero trascorsi dalla laurea i tre anni previsti dalla norme universitarie. La sua carriera di docente fu rapida. Nel 1773, a soli ventidue anni, divenne professore di Istituzioni civili: questo, però, non deve meravigliare perché le tappe del cursus honorum accademico erano allora assai brevi. Nel 1776 passò poi all'insegnamento di Pandette. La docenza universitaria fu anche per lui, secondo le consuetudini del tempo, un trampolino di lancio per salire ai vertici della magistratura: fu dapprima coaggiunto nella Sala civile, uno dei due rami (l'altro era la Sala criminale) della Reale Udienza, il massimo organismo giudiziario dell'isola.
Intanto il 13 giugno 1781 si era sposato con Anna Belgrano (figlia di Raimondo, industriale, negoziante ed “arrendatore”, cioè appaltatore della tonnara di Calavinagra nell'isola di San Pietro) che gli portava in dote 60.000 scudi, pari a 150.000 lire sarde, una somma per quei tempi davvero ragguardevole.
Anche ai ranghi della magistratura bruciò le tappe di una brillante ascesa: nel 1786 divenne sostituto avvocato fiscale (carica in qualche modo paragonabile a quella attuale di sostituto procuratore della Repubblica); nell'agosto del 1789 ottenne le regie patenti che gli conferivano un posto nella Sala criminale. Occupando il seggio di quel supremo consesso godette fama di giudice dotto ed integerrimo.
L'alto incarico tuttavia non lo assorbì completamente: tra la fine del 1789 e gli inizi dell'anno successivo si dedicò alla coltivazione del cotone e dell'indaco, materie prime poi trasformate in una sua manifattura che produceva guanti, coperte, calze e berretti. In entrambi questi campi ottenne risultati eccellenti, anche se non duraturi. Lo slancio e l'entusiasmo di quegli anni furono attenuati o interrotti, ma non spenti, da un fatto doloroso: donna Annica, che lo aveva reso padre di tre figlie (Speranza, Giuseppa Maria e Maria Angela Elisabetta) morì il 9 dicembre del 1791. Ma una situazione completamente nuova per la Sardegna, per i ceti dirigenti isolani (e dunque anche per l'Angioy) fu creata dalla sconfitta militare subìta dai francesci nel golfo di Cagliari e presso La Maddalena (gennaio-febbraio 1793). L'Angioy partecipò, in qualche modo, all'esplosione di orgoglio nazionale, abilmente fomentato ed utilizzato dai ceti dominanti in chiave di crociata controrivoluzionaria. Egli infatti fece giungere da Bono un nerbo di cavalleria miliziana che mantenne a sue spese nella capitale durante tutto il periodo dell'emergenza bellica, anche se si sostiene che in questa occasione egli non profuse lo zelo e l'ardore che caratterizzano le sue imprese.
D'altra parte le vicende successive dimostrano che la vittoria sui francesi non può essere interpretata come risultato di un moto esclusivamente reazionario o sanfedista. Di quello stesso anno è infatti la prima grande ondata di lotte antifeudali. Nel 1794 esplodeva il malcontento, troppo a lungo compresso, nei confronti della piemontesizzazione dell'apparato burocratico-amministrativo: dopo la sollevazione di Cagliari del 28 aprile, dalla capitale, così come da Sassari e Alghero, vennero cacciati, insieme allo stesso viceré tutti gli impiegati piemontese, savoiardi e nizzardi. Nell'organizzazione del moto l'Angioy, quasi certamente, non rivestì una funzione precisa: tuttavia la storica “emozione” cagliaritana segnò anche per lui una svolta. Rimasto vacante il seggio del viceré, il potere supremo fu assunto dalla Reale Udienza nella quale la voce dell'Angioy era sempre più ascoltata. Le agitazioni cagliaritane culminarono nella morte di due esponenti dello schieramento reazionario: l'intendente generale di finanza Gerolamo Pitzolo e il generale delle armi Gavino Paliaccio, marchese della Planargia. Entrambi furono trucidati durante le sommosse popolari scoppiate a Cagliari il 6 e il 22 luglio 1795. In seguito lo storico Giuseppe Manno, nella sua Storia moderna della Sardegna dall'anno 1773 al 1799, avrebbe lanciato l'infamante accusa secondo la quale l'Angioy sarebbe stato il mandante, più o meno occulto, dei due fatti di sangue: lo storico algherese però non porta prove concrete a sostegno di questa tesi che (fatto assai significativo) non fu avanzata neppure in una supplica indirizzata il 4 aprile del 1798 dai figli del marchese ucciso al re Carlo Emanuele IV. Le argomentazioni del Manno inoltre sono state smaltellate da Dionigi Scano, che nel suo saggio Don Giommaria Angioy e i suoi tempi le liquida come del tutto inconsistenti. Dopo la tragica fine dei due ufficiali regi — che a Sassari potevano contare su una vasta rete di rapporti parentali e clientelari — i baroni, le massime autorità religiose e una parte del notabilato della città tentarono di fomentare una secessione del Capo di Sopra per costituirlo in viceregno a sé stante. Ma il loro disegno fu inesorabilmente stroncato dal giovane notaio Francesco Cilocco e dall'avvocato sassarese Gioacchino Mundula — strettamente legati all'Angioy — che, alla fine del 1795, marciarono su Sassari alla testa di migliaia di vassalli: episodio veramente unico — per il carattere di massa — nel rapido succedersi di congiure, rivolte e reazioni che accompagnano il tramonto del XVIII secolo in Italia. In questo contesto maturò la nomina dell'Angioy ad Alternos del Capo di Sopra con poteri civili, politici, giudiziari e militari pari a quelli del viceré Filippo Vivalda. La precisa intenzione della componente moderata della borghesia cagliaritana (rappresentata specialmente dagli avvocati Vincenzo Cabras ed Efisio Luigi Pintor Sirigu) era allontanare dalla capitale il giudice bonese per affidargli l'ingrato compito di “pacificare” — cioè reprimere — le masse dei villici in rivolta.
L'Angioy, invece, dopo la trionfale accoglienza che Sassari gli tributò il 28 febbraio 1796, utilizzò il delicato incarico per spingere le comunità di villaggio ad unirsi in un'unica “confederazione” capace di imporre l'abolizione del sistema feudale. A questo obiettivo mirava nel giugno del 1796 quando intraprese la marcia su Cagliari alla testa di una schiera di alcune centinaia di cavalieri armati (composta per lo più da esponenti della piccola nobiltà rurale, professionisti, sacerdoti e possidenti). Sconfitto militarmente al ponte sul Tirso presso Oristano, si vide costretto ad abbandonare la Sardegna. S'imbarcò a Porto Torres la sera del 16 giugno 1796: non avrebbe mai più rivisto la sua terra. Le tappe della sua lunga peregrinazione in Italia furono nell'ordine Genova, Livorno, Milano, di nuovo Livorno, Torino, Casale, ed ancora Genova. Alla fine del 1798 o ai primi dell'anno seguente l'ex-alternos si trasferì in Francia: prima a Marsiglia e poi a Parigi. Fino al momento della sua partenza, l'Angioy non aveva espressamente abbandonato il suo atteggiamento lealistico nei confronti della Corona. In ogni caso l'abolizione del feudalesimo era un obiettivo rivoluzionario perché comportava il crollo di un pilastro fondamentale dell'ancien régime isolano. Le forche drizzate in Sardegna contro i suoi seguaci, la consapevolezza che l'eversione della feudalità era incompatibile con l'assetto monarchico, il contatto con l'ambiente francese convinsero in seguito l'Angioy della necessità di un radicale cambiamento del sistema sociale ed istituzionale. In Francia perciò egli si impegnò a fondo per organizzare una descente nell'isola delle truppe francesi e degli emigrati politici sardi: la sua prospettiva, a questo punto, era diventata la formazione in Sardegna di una repubblica sotto la protezione della Grande Nation. In base a quest'ottica, nell'agosto-settembre del 1799 egli redasse ed inviò al Direttorio un importante mémoire. Agli albori del 1800 i preparativi per la spedizione fervevano. In data 8 piovoso dell'anno VIII (cioè il 28 gennaio di quello stesso anno), l'Angioy indirizzò una lettera a Diego Scardaccio, Domenico Solis e Domenico Sotgia Mundula — che erano stati al suo fianco nel governo del Capo di Sopra — annunciando l'imminente sbarco dei francesi. La missiva però non raggiunse mai i destinatari perché fu intercettata dalla flotta inglese. In seguito gli avvenimenti del 1800 presero una piega imprevedibile che vanificò le grandi speranze degli esuli sardi. Profondamente deluso dall'esito di questa vicenda, l'Angioy cercò allora in tutti i modi di alleviare le dure condizioni di vita degli emigrati, in particolare si adoperò perché le autorità francesci sollecitassero il governo sabaudo a concedere un'ampia amnistia per il moti del 1795-1796. Gli ultimi anni dell'Angioy furono amari e vissuti in condizioni prossime all'indigenza. Non ebbe — o non volle avere — quegli incarichi e quegli onori che l'Impero napoleonico aveva riservato a Domenico Alberto Azuni e a Matteo Luigi Simon. Si spense prematuramente il 23 febbraio 1808 all'Hotel Carignan, in rue Froidmanteau a Parigi. Le indagini svolte fino ad oggi non sono riuscite a stabilire in quale cimitero della capitale sia stato seppellito. Il primo marzo il diplomatico Antoine François Coffin — amico dell'Angioy e suo esecutore testamentario — indirizzava al giornale “Courier de l'Europe et des spectacles” una lettera commossa ricordando il travagliato itinerario biografico dell'ex-alternos: era spirato con calma e rassegnazione, diceva il Coffin, auspicando che Napoleone si interessasse alle sorti della sventurata Sardegna.