La
civiltà nuragica ha sempre costituito un tema dominante nell’archeologia sarda, tanto da aver mortificato per lungo tempo lo studio delle culture prenuragiche, dell’età fenicio-punica e della Sardegna romana e altomedievale. La particolare attenzione rivolta dagli studiosi a questo periodo della Sardegna antica, appare, però, ampiamente giustificata ove si considerino le migliaia di monumenti (nuraghi, villaggi, tombe di giganti, pozzi sacri) -spesso grandiosi e sempre suggestivi - che segnano il territorio dell’Isola, quasi a fondersi con esso come parte integrante ed essenziale. Alla prepotente originalità dell‘architettura - che non trova riscontro nell’ambito delle antiche civiltà del Mediterraneo - si aggiunge, poi, il valore delle manifestazioni artistiche (si pensi ai bronzi figurati e le antiche statue di Monti Prama) e il senso di stupore e di mistero che i nuraghi hanno suscitato, in ogni tempo, nel visitatore. E se gli studi e le ricerche di questi ultimi decenni sono stati particolarmente proficui per la conoscenza del mondo fenicio-punico ed hanno dilatato in misura insospettata l’arco cronologico delle culture prenuragiche, arricchendone e definendone meglio il quadro culturale, è pur sempre la civiltà nuragica quella che ancora oggi esercita maggiore fascino sul pubblico non specialista e sugli stessi studiosi. Chiarito fin dalla prima metà del secolo, soprattutto con gli scavi e le scoperte del Taramelli, il «mistero» della funzione dei nuraghi - che pure, di tanto in tanto, accende la fervida immaginazione di «astroarcheologi», «ufologi», ed altri, sino agli anni Cinquanta, pur conosciuta sufficientemente nei suoi aspetti generali, l’età nuragica si presentava ancora come un blocco omogeneo scarsamente articolato, con pochi punti di riferimento sicuri, numerose incertezze e non pochi problemi da risolvere. Con gli scavi di Barumini, condotti dal Lilliu fra il 1949 e il 1956 e rimasti fondamentali fino ai nostri giorni (G. Lilliu, Il nuraghe di Barumini e la stratigrafia nuragica, in «Studi Sardi» XII-XIII (1952-54), venivano riconosciuti nel mondo nuragico momenti di vita differenziati ai quali corrispondevano fasi edilizie distinte, precise forme socio-economiche, prodotti artistici e materiali d’uso. La pubblicazione di importanti monografie (G. Lilliu, I nuraghi, torri preistoriche della Sardegna, 1962; Id., Sculture della Sardegna nuragica, 1966), di lavori di sintesi, di saggi e di articoli da parte dello stesso Lilliu e di altri studiosi fondamentali i recenti contributi apparsi nel volume Ichnussa, 1981) l’edizione critica di materiali, estesi scavi e fortunati ritrovamenti hanno notevolmente ampliato, nell’ultimo trentennio, il panorama delle nostre conoscenze sulla civiltà nuragica, confortando ipotesi già formulate ed aprendo nel contempo nuove tematiche che sono ben lungi dall’essere risolte. In questo volume che apre la serie di Studi e monumenti, Giovanni Lilliu, il Maestro riconosciuto dell’archeologia sarda, presenta un aggiornato ed in parte nuovo quadro della civiltà nuragica. Abbandonato lo schema cronologico e culturale emerso a Barumini ed esteso poi all’intera età nuragica-troppo riduttivo e non sempre rispondente allo stato attuale della ricerca l’Autore propone una articolazione per fusi della civiltà nuragica; vengono, infatti, individuale cinque fasi svolgentesi dal Bronzo antico alla piena età del Ferro nelle quali sono collocati aspetti monumentali, categorie formali e morali, prodotti della cultura materiale e fisionomie inorfoantropologiche, interpretati sia nel loro divenire storico che in relazione con ambiti culturali esterni. Ma se le fasi II-IV, dal Bronzo medio all’età del Ferro (1500-500 a.C.), mostrano una linea di sviluppo coerente e sufficientemente definita, non poche perplessità sorgono in relazione alle fasi I e V. Alla fase I, del Bronzo antico (1800-1500 a. C.), vengono riferiti esiti finali ed attardati di Abealzu e M. Claro nonché la cultura di Bonnanaro, la quale, finora, è sempre stata considerata a sestante e strettamente legata a quella del vaso campaniforme; ne consegue un polimorfismo culturale nel quale la «linea» nuragica sembra essere ancora troppo esile e indeterminata. Un quadro, come si vede, piuttosto complesso e confuso che però, a tutt’oggi, almeno sulla base delle scarse prove archeologiche in nostro possesso, appare come l’unico proponibile. Infatti, a parte le indicazioni emerse dall’esplorazione dei protonuraghi di Sa Korona e Bruncu Màdugui e la presenza di ceramica M. Claro segnalata presso numerosi nuraghi, particolare significato acquistano i fittili M. Claro rinvenuti di recente in una tomba di giganti di Lunamatrona, della quale viene data notizia per la prima volta in questo volume. In quanto alla cultura di Bonnanaro, giova ricordare che, almeno allo stato attuale delle nostre conoscenze, essa si presenta caratterizzata quasi esclusivamente dalla produzione vascolare, mentre sembrano mancare testimonianze precise su tutti quegli aspetti civili e morali che concorrono a formare una cultura; né, d’altra parte, si può ignorare che ceramiche esclusive di questa cultura sono presenti in un numero sempre crescente di tombe di giganti, ed ora, seppure in misura episodica, anche in nuraghi. E una fase, questa, ove insieme ai germi di una civiltà nascente convivono ancora motivi eneolitici; occorrerà, quindi, vagliarne attentamente i vari elementi costitutivi e studiarne le interrelazioni al fine di poter distinguere sempre più nettamente il filo conduttore che segna la Sardegna del Bronzo. Per la fase V dal 500 al 238 a.C., le difficoltà d’inquadramento culturale derivano dal fatto che si tratta di un’epoca particolarmente travagliata e assai poco studiata, nella quale la Sardegna nuragica cessa, probabilmente, di produrre cultura; per questo riesce estremamente difficile distinguere elementi culturali che per caratteristiche proprie possano definirsi nuragici. Nuove scoperte, ricerche finalizzate e, la revisione critica di materiali già noti potranno dare risposta a questi e agli altri complessi problemi che ancora pesano sulla ricostruzione storico-culturale della civiltà nuragica. Occorrerà spiegare, ad esempio, l’assenza della ceramica a «pettine» nella Sardegna meridionale, ove, tra l’altro, è quasi del tutto sconosciuta la tomba di giganti con stele centinata, largamente diffusa, invece, come quella stessa ceramica, nel centro-nord dell’Isola. La mancanza, poi, di stratigrafie significative impone lo studio tipologico della ceramica, la quale, a causa dell’esclusività del suo patrimonio formale, offre un tenue quadro comparativo con la produzione vascolare delle contemporanee culture del Mediterraneo, fornendo, di conseguenza, scarsi riferimenti cronologici. Si avverte, inoltre, nello studio dell’età nuragica, la carenza di esami chimici sii bronzi e di analisi su resti faunistici e botanici, mentre sono poche e non sempre accertate le datazioni al Carbonio 14. Si sono voluti sottolineare alcuni punti critici che la stessa impostazione problematica del libro ha suggerito; essi, tuttavia, non alterano in alcun modo la visione complessa, omogenea e dinamica di una civiltà che per lungo tempo è parsa chiusa ed isolata e che ora si apre ed entra in un vasto e fervido contesto mediterraneo ed europeo di contatti fisici e ideali. Il volume si segnala, infine, per il ricco apparato illustrativo, grafico e fotografico, che non vuole essere pura espressione documentaristica, ma tende a far rivivere, attraverso le immagini, una fra le più affascinanti e misteriose civiltà dei Mediterraneo. All’Autore dobbiamo gratitudine per questo stimolante e prezioso contributo, mentre all’Editore vanno riconosciuti coraggio e sensibilità culturale per il non lieve impegno editoriale.