Testi di Natalino Piras
I grandi nuoresi
Nuoro era l’Atene sarda, una fucina di menti e di geni quasi tutti irregolari.
Grazia Deledda Il romanzo di formazione di Grazia Deledda è in realtà per la sua ricerca sul campo per la Rivista di tradizioni popolari. Nacque a Nuoro il 27 settembre 1871, nel rione di Santu Predu. Frequentò le scuole elementari e poi prese lezioni da un professore ospite di una sua parente. Si può dire che fu un’autodidatta. I suoi primi racconti furono pubblicati nella rivista “L’ultima moda” e le prime poesie, Nell’azzurro, dalla casa editrice Trevisani, nel 1890. Visse a Nuoro sino ai trent’anni. Poi conobbe a Cagliari Palmiro Madesani, funzionario del Ministero della guerra. Si sposarono e andarono a vivere a Roma. Dopo la pubblicazione di Anime oneste, nel 1895, de Il vecchio della montagna, 1900, la critica iniziò a interessarsi alle sue opere. In quel tempo collaborava alle riviste “La Sardegna”, “Piccola rivista” e “Nuova Antologia”. Nel 1903 esce Elias Portolu. Poi Cenere, 1904, da cui nel 1916 venne tratto un film con Eleonora Duse, L’edera, 1906, Sino al confine, 1911, Colombi e sparvieri, 1912, Canne al vento, 1913, L’incendio nell’oliveto, 1918, Il Dio dei viventi, 1922. Nel 1927 ricevette a Stoccolma il premio Nobel, assegnatole l’anno prima. Morì a Roma il 15 agosto del 1936. L’anno dopo uscì il suo romanzo autobiografico Cosima. Nel 1959 la salma venne traslata a Nuoro. La sua tomba è nella chiesetta della Solitudine, ai piedi del monte Ortobene.
Bustianu Satta Bustianu Satta, soprannominato Pipieddu, bambinello, visse 47 anni. Nuoro:nasce il 21 maggio 1867 muore il 29 novembre 1914. Fu un grande avvocato, spesso dalla parte di contadini, di più pastori, inseguiti e perseguiti dalla giustizia. Su questa sua fama di “difensore degli oppressi” fioriscono storie e leggende smentite dallo stesso Satta. Quando per esempio annota a margine di carte avvocatesche che «l’alibi è il fondo di bottega di tutti i processi». L’opera più nota di Bustianu sono i Canti. I Canti barbaricini furono pubblicati per la prima volta nel 1910 e Canti del salto e della tanca uscirono postumi nel 1924. «Parola forza luce suono», così Salvatore Ruju in un numero del “Il Nuraghe”, sempre nel ’24. Diceva Mario Ciusa Romagna nel 1985, a conclusione di un convegno su Sebastiano Satta e sul figlio Vindice, che rimaneva ancora irrisolta una questione: se cioè per la poesia sattiana non fosse giunto il tempo di essere sprofondata in mare dentro “una bara / Grande grave profonda”. Memorabile l’edizione mondadoriana nella prestigiosa collana “Lo Specchio” dei Canti sattiani, per la cura appunto di Mario Ciusa Romagna: nel 1955, nel 1962 e nel 1980.
Mario Ciusa Romagna Nei primi mesi del 1985 ho lavorato insieme al professor Mario Ciusa Romagna per organizzare la mostra dei manoscritti di Sebastiano Satta, di proprietà del consorzio per la pubblica lettura nuorese, già Biblioteca, che del poeta porta il nome. Lo stesso Consorzio era promotore del Convegno “Sebastiano Satta: dentro l’opera dentro i giorni” che si sarebbe tenuto, nell’auditorium della Biblioteca, il 9 e il 10 marzo. Due giornate di studio molto intense che hanno visto la partecipazione dell’intellighentia letteraria della Sardegna intera e non solo. Tra gli altri enti organizzatori di quell’avvenimento, iniziato l’anno prima, nel settantennale della morte di Bustianu con una giornata, il 9 aprile, dedicata al figlio Vindice, figuravano ISRE, Comune, Provincia e Comunità montana del nuorese. Di tutto esistono gli atti, pubblicati in due volumi nel 1988 dalla Biblioteca a cura di Angela Quaquero e Ugo Collu: Dentro l’opera e dentro i giorni per Bustianu, La parola negata per il figlio Vindice. La mostra dei manoscritti venne inaugurata l’8 marzo di quel 1985. Ricordo Ciusa Romagna che chiosava con notazioni di vita vissuta – Satta morì che lui era bambino – e lessico-grammaticali ogni singolo foglio. C’è stato da imparare. A lavoro ultimato, allestita la mostra, Mario Ciusa Romagna ritornò alla sua città di adozione, Cagliari. Sarebbe risalito a Nuoro per l’inaugurazione e per i giorni del convegno. Prima di partire ci fu comunque il tempo per organizzare una intervista, annotare, in forma di dialogo, parole e pensieri intorno e sulle carte di Bustianu che io vedevo per la prima volta e che invece professor Ciusa Romagna già ben conosceva. Fu lui a raccontarmi dei “canti della culla” da Bustianu depositati nella bara della figlia morta bambina, nel 1908. Raimonda si chiamava, Biblina. Quelle poesie ritornarono alla luce nel 1924, 10 anni dopo la morte di Bustianu, quando la bara di Biblina venne appositamente riaperta. Ciusa Romagna non attribuiva grande valore letterario a quei canti di dolore. Era lo stesso Ciusa, poi, a commentare le parole inusuali e “difficili” del lessico sattiano. Quelle che lo stesso Bustianu annotava in un quaderno-vocabolario e quelle restate inusuali: per le quali bisogna approntare un glossario. Ricordo che studiammo e scrivemmo didascalie semplici e brevi, concise. Dovevano servire per commentare e chiarire. Ciusa Romagna chiedeva e noi bibliotecari gli trovavamo i testi che di volta in volta servivano per stabilire una data o un riferimento. Ripeteva il professore che si trattava di una mostra didattica, limitata ai soli manoscritti in possesso della Biblioteca. Ciononostante continuava nel suo lavoro di indagine e ricostruzione. Ci fu da imparare. Di quei dialoghi di lavoro con Ciusa è rimasta comunque traccia, l’intervista finora inedita che viene qui riproposta. Alcuni passaggi suonano ancora attuali.
– Professore, lei ha visto o rivisto i manoscritti di Sebastiano Satta che saranno esposti in un percorso cronologico. Cosa può dire, alla vigilia della mostra?
“Prima di tutto preciso che non si tratta affatto di una mostra bibliografica, bensì di una semplice mostra di manoscritti. Che non sono molti e neppure di notevole interesse. La maggior parte di questi, almeno parzialmente, sono stati riprodotti in varie occasioni. Io li ho rivisti con interesse perché ogni riesame suggerisce sempre qualche cosa a cui prima non si era pensato. Lo sforzo è stato nello stabilire le date dei vari manoscritti e nel tentativo di ordinarli cronologicamente in modo di soddisfare il proposito della Biblioteca Satta che era ed è quello di una rassegna didattica, illustrativa, nei limiti del possibile, di alcune vicende politiche e culturali del poeta. Per questo si è pensato di documentare queste vicende con una serie ricchissima di fotografie”.
– Lei, professore, accenna al fatto che il riesame dei manoscritti gli ha suggerito qualcosa di nuovo. In che senso?
“Prima di tutto si nota il tormento, la ricerca sofferta del termine. L’osservazione delle varianti può dare la prova delle due anime di Satta. Da una parte il trapasso da un termine all’altro è sforzo di ricerca fonica, tonale, della parola, una tendenza che definirei epifanica, immaginifica. Dall’altra, invece, si nota lo sforzo al raggiungimento di una puntualità semantica, profonda. In Satta è sempre presente il mistero esistenziale della sua regione, il rapporto tra anima e corpo, terra e storia. L’elemento più positivo che viene fuori da questi manoscritti è nello sforzo, nella costanza con cui persegue la conoscenza della lingua italiana. Lo studio dei vocabolari, la trascrizione dei termini è quasi sempre in relazione al sardo”.
– Cosa intende dire?
“Secondo il mio modesto avviso il poeta nella lingua italiana non solo cercava il corrispondente termine sardo, ma la semantica e perfino l’esistenzialità del corrispondente termine. Insomma la lingua italiana doveva dargli la misura e l’essenza, la stessa verticalità del sardo. In questo senso mi pare che il suo sforzo sia veramente notevole. L’argomento, certamente, richiede una maggiore analisi, che, penso, sarà fatta in sede di convegno”.
Così fu, anche se non in maniera esaustiva. Certo quei giorni dell’85 hanno tramandato memoria di sé. Per Satta comunque bisogna ancora creare qualcosa, forse attualizzare il suggerimento dato da Ciusa Romagna a conclusione di dialogo: occasioni, per “riparlare più a fondo” della poetica di Bustianu. Forse c’è ancora da imparare.
Gonario Pinna Nato l’11 settembre del 1898 e morto nella primavera del 1991, continua a essere una figura portante della storia e della cultura nuoresi. Il padre di Gonario, Giuseppe Pinna, era di Sarule. Fu ragazzo pastore prima di diventare «avvocato di prestigio nel foro di Nuoro», così Guido Melis, «progressista, legato al gruppo dei democratici sassaresi della Nuova Sardegna, deputato al Parlamento per quattro legislature». Giuseppe Pinna fu ucciso mentre usciva dal tribunale di Nuoro, da «un calzolaio mezzo pazzo». Gonario fece le scuole a Nuoro, Sassari e Firenze, frequentando aule di tribunali, circoli anticlericali intitolati a Giordano Bruno e il «liceo severissimo Michelangelo» del capoluogo toscano. «Quasi diciottenne ritorna a Nuoro per le vacanze e vi conosce una ragazza che diverrà la compagna della sua vita».
Poi la guerra. Era studente in giurisprudenza a Roma nel 1918 quando partì volontario per il fronte. Conobbe notti gelide, bombardamenti e anche la prigionia in un campo di concentramento ungherese. Ritorna dalla guerra, riprende gli studi sotto la guida, principalmente, di Enrico Ferri, «il più prestigioso esponente della scuola italiana del diritto positivo». Sarà lo stesso Ferri dopo la laurea nel 1921 a indirizzare Gonario Pinna verso Berlino, perché si specializzi in sociologia criminale: il professore vorrebbe che Gonario Pinna gli fosse accanto nella carriera accademica. Le cose andranno diversamente. Nella capitale tedesca Gonario incontra Max Leopold Wagner cui era stato raccomandato da Antonio Ballero. L’amicizia con uno dei più grandi studiosi del sardo rafforza gli interessi linguistici del giovane Gonario che poi, una volta rientrato in Italia, sceglierà definitivamente di rimanere nell’universo da dove era partito: Nuoro. Correva il 1923. La scelta del ritorno alle origini è motivata principalmente con il fatto di restare accanto alla madre ormai anziana, anche per amministrare il patrimonio di famiglia e per esercitare la professione del penalista nel foro nuorese. In queste due motivazioni, nella linea di confine tra privato e pubblico, sta la nascita, la crescita e la durata del mito di Gonario Pinna. Non c’è campo che non abbia attraversato e di tutto ha lasciato scrittura. Di spirito repubblicano, fu sorvegliato speciale durante il fascismo, intellettuale scomodo e fuori dal coro. Finite la dittatura e la guerra, negli anni cinquanta entrò a fare parte del partito socialista, nella corrente autonomista di Nenni. Si candidò alla Camera per la trentesima circoscrizione di Cagliari. Primo dei non eletti, subentra a Emilio Lussu che in suo favore opta per il Senato. Sarà deputato dal 1958 al 1963. Presenterà 20 proposte di legge e innumerevoli interrogazioni orali e scritte. Al centro di questo operare politico ci sono “la Sardegna e il vasto mondo”. Il centro d’interesse, il punto di andata e di ritorno, l’osservatorio privilegiato, resta comunque il tribunale dove l’avvocato Gonario Pinna, tanto abile nell’arte oratoria quanto suadente in quella della scrittura, è uno dei protagonisti principali, se non il più importante. Su primu, il principe. Sarà più tardi Salvatore Satta a rivelare nel Giorno del giudizio come il processo rappresenti l’esperienza dei vivi e quali e quanti fantasmata agitino i comportamenti, in un tempo dilatabile all’infinito, dei nuoresi e dei barbaricini. Ma, in un ideale raffronto, è Gonario Pinna a preparare il terreno. Si potrebbe sostenere che nel parlare, nello scrivere e nel ritornare al nodo del “pastore sardo e la giustizia”, che è anche il titolo di uno dei suoi libri più importanti e conosciuti, Gonario Pinna riversi tutta la storia non solo dei nuoresi ma della Sardegna intera. Ne viene fuori uno spaccato enciclopedico. Nell’esperienza dell’avvocato Pinna, da lui vissuta prima che appresa sui libri, leggiamo della questione sarda inserita in quella meridionale, di Benedetto Croce, di Antonio Pigliaru e della rivista “Ichnusa”, ma anche della resistenza di fattori magici nelle aule dei tribunali, con veggenti e donne capaci di berbos a condizionare il processo. Entrano in scena ancora antiche madri che, come in trance, nello studio dell’avvocato “vedono” e “sentono” compiersi, proprio in quel momento, l’uccisione del figlio. Gonario Pinna comente homine fu un penalista intransigente. Entrando nella conflittualità dei codici che opponevano lo stato del “noi pastori” all’altro Stato, quello che programma ed esercita la Giustizia, non indulge a nessuna compassione della realtà delinquenziale. Così come spoglia di aura nostalgica la civiltà contadina. Però quella realtà tanto antica e conflittuale, oppositiva e remissiva insieme, la sente come proprio mondo. È lo stesso mondo di Sebastiano Satta, di Grazia Deledda, di Salvatore Cambosu, tutta gente conosciuta personalmente o per eredità di affetti e comune sentire. Gonario Pinna, «intellettuale laico, criminologo, studioso di demologia giuridica», come dice Gianni Sannio, fa vedere come nonostante tutto l’anarchia barbaricina sia capace di vaste campiture. Oltre Nuoro come microcosmo.
Predu e Antonio Mura Il poeta Predu Mura, quello della “luche soliana” e degli “ottanta cabaddarjos”, fu in Africa Orientale, dal 1936 al 1939, al tempo della sciagurata colonizzazione italiana. Partì per le campagne di Eritrea e Somalia da Nuoro dove si era accasato dopo una vita da ramaio girovago. Parte per l’Africa in seguito a una crisi finanziaria seguita all’acquisto di una cartoleria. Ha moglie e cinque figli. Si arruola volontario, nella seconda compagnia del 315° battaglione bersaglieri, “con un numero complessivo di figli di 1151”. Molti sono richiamati. Il battaglione è composto perlopiù da contadini e braccianti, operai, artigiani, impiegati, commercianti. C’è anche “un sardo padre di 16 figli”. I molti bisognosi e “finanche i 4 benestanti” del battaglione sono tutti alla cerca di fortuna e di gloria. Il tempo è quello del fascismo trionfante. Comanda il battaglione Ennio Giovesi che fu compagno d’armi di Gabriele D’Annunzio, nella conquista del monte Veliki durante la prima guerra mondiale. All’antico commilitone in partenza per la guerra etiopica il Vate invia un lungo messaggio pieno di “buccine”, di “percosse di battaglia”e di orizzonti d’oltremare. “Teneo te Africa”, si esalta D’Annunzio rivolgendosi a Giovesi ma anche ai «200 sardi, non diversi da quelli della Brigata Sassari che nella guerra grande io condussi al combattimento, non diversi da quelli che superarono l’apice d’ogni coraggio». Predu Mura è uno dei 200. La sua storia è come quella di tanti altri meridionali, sardi, nuoresi, dei paesi del circondario. Ne circolano ancora tante di storie provenienti da quelle conquiste italiche. Storie che si trovano alcune nei manuali e altre no, quella dell’eccidio ad opera del maresciallo Graziani, compiuto nel monastero di Debrà Libanòs, e quelle ancora impregnate di gas, usato per lo sterminio di intere popolazioni. Ancora fino all’altro ieri Indro Montanelli polemizzava con lo storico Angelo Del Boca che gli rammentava appunto l’uso dei gas. Montanelli negava l’evidenza. Ci sono storie sintetizzate da un’immagine, cartoline con impiccati, teste tagliate, gente gasata: libici e moros. Gli italiani invece sono sorridenti e indifferenti. Quanto mai lontane queste storie e immagini da quelle comiche e grottesche che ancora appartengono all’oralità. Come quella di un tale tziu che raccontava che lui i bambini arabìos li metteva ad alluminzare il fuoco. E altre dove c’è il cocente sole africano, grande come un canestro. E sos nieddos che quando qualcuno dei nostri gli cadeva nelle mani, liberanos domine! E l’acquavite ricavata dalla buccia di patata e dalle cipolle nei campi di concentramento inglesi, dopo che i soldati di Sua Maestà sconfissero definitivamente Rommel, la volpe del deserto, e i suoi alleati italici. Il sogno coloniale si era definitivamente frantumato. Di quel sogno, vissuto tra consapevolezza e no, Pedru Mura è testimone.Ci sono fotografie che lo ritraggono in momenti di sosta, sotto una palma, e altre in ricognizione sui monti, armato di tutto punto, in divisa coloniale. In altre ancora è in mezzo ad abissini che improvvisano danze per festeggiare un’azione vittoriosa degli italiani. In una il poeta è seduto davanti a un tavolo, nel fortino di Uogòro, intento a scrivere lettere. Tante le lettere indirizzate alla moglie Mura Bande Mariantonia, via Efisio Tola 12, Nuoro. Si inizia con grandi speranze. “Carissimi”, scrive Mura che si firma sempre Piero, il 13 novembre del 1936, “Spero che due o tre anni di soggiorno in questa terra ci bastino per farci una buona posizione”. L’idea è quella di diventare ricchi, una nuova terra dove finalmente dimenticare il girovagare per le strade della Sardegna e le angustie di Nuoro. “Cosa vuoi che io faccia”, si sfoga Predu in una missiva, sempre sul finire di quel 1936, “a scrivere al duce ogni momento non è cosa tanto delicata”. Il duce è considerato ancora l’uomo della Provvidenza. Il soldato Pietro Mura di Antonio partecipa alle operazioni militari e riceve una paga. Manda a casa i soldi, vaglia postali di 200, 500, 700, 1110, 1150, 1200 lire. Sfrutta gli spazi delle “comunicazioni del mittente” per dire della salute: “io sto sempre bene”. Raccomanda la cura con l’olio di merluzzo. Per quanto può governa da lontano l’andamento delle cose nuoresi. Nel retro dei vaglia e nelle altre lettere si avverte in Pietro Mura una grande passione per i libri e le scritture, per le opportunità che offre lo studio. Si preoccupa dell’andamento scolastico dei figli, specie Pinuccio e Tonino, quest’ultimo destinato a diventare anche lui uno dei più grandi poeti sardi del Novecento. I segnali di crisi, nell’avventura africana di Predu, iniziano ad avvertirsi nell’autunno del 1937. Scrive Mura da Massaua, il 9 ottobre, quindicesimo anno dell’era fascista: “Carissima Tonia, mi dispiace che mentre io avevo proposto di rimpatriare a fine d’anno, sia costretto entro il corrente mese. La compagnia si è sfasciata per cui stanno facendo rientrare tutti i componenti di essa. Eravamo 1400 ed ora siamo solo 250 che entro ottobre dovremo pure rientrare. Io, malgrado con poca forza e anche con poca volontà perché ne sono più che stanco, sto tentando di cercarmi un posto ma ho molto dubbio che non riesca. Questo clima è solo adatto per i serpenti. Scrivo poco perché sono stanco”. C’è anche un post scriptum: “Da un mese ci hanno fatto sulla paga il ribasso del 30% ed essendoci pure stato poco lavoro la paga è diminuita di più della metà. Non hanno però pagato ancora e ci devono 3 quindicine”. Qualche segnale di ripresa sembra avvertirsi pochi giorni dopo. “È arrivato il piroscafo ‘Sardegna’, con a bordo molti volontari fra i quali c’erano parecchi nuoresi. Tutti stanno ottimamente, abbiamo bevuto una birra assieme ma sono dovuti partire subito appena sbarcati perché gli autocarri erano in loro attesa. Non sapevano per quale zona dovessero andare ma di certo gli hanno portati verso Gondar, ove so che c’è bisogno di rinforzi. Dirai alle loro famiglie che stiano tranquille, tutti erano contenti”. Illusioni. Il colonialismo italiano era iniziato con la sconfitta di Adua nel 1896. Finisce per sempre ad El Alamein, nel 1942. Per la campagna d’Africa Pietro Mura fu decorato con la medaglia del gladio romano e con la croce di guerra. Ma cosa valgono rispetto ai suoi versi che già allora, nel sole del deserto, maturavano: «Chie andat tessende luche, / e corbulas d’erba cana, / ube creschen sos arbores, / chi faghen progher sos chelos?».
Breve ma intensa, “irrequieta” dice Gonario Pinna nel suo Antologia dei poeti dialettali nuoresi, la vita di Antonio Mura, morto nel 1975 a 49 anni. Poeta figlio di poeta. Nugoresu, Antonio, Tonino in accezione famigliare. Isilese il padre, nato nel 1901, Pedru figlio di Antonio, ramaio stirpe di ramai. Approdò a Nuoro nel 1925 dopo aver camminato per l’isola intera a vendere i manufatti tipici: lapiolos e sartàinas. A Nuoro Pedru Mura sposò Mariantonia Bande Ticca, nipote del canonico Giuseppe Ticca, che la allevò fin da bambina. Il figlio Tonino ne registrò la voce che recita, in perfetta dizione logudorese, rispettando scansioni e accelerazioni, pause e ripetizioni, i brani ormai classici di Su mortu de Orolai e Cherimus un’arbor’e pache. Una voce che si sente ancora con emozione. Così come quella di Tonino che nel magnetofono, si chiamava così allora, marca “Geloso”, faceva prove di incisione circondato dai figli bambini: “Non tocches”, “Ista a sa muda”, “Non bi l’ar galu compresa”, “Tue ti dias ponner finas a pranghere”, “Ista a sa muda t’appo nau”. Una voce intonata, comunicativa. «In uno di questi nastri», dice Nereide Spano, la moglie, mentre il figlio Ludovico fa andare i cd dove tutto è stato riversato, «Tonino leggeva le poesie del padre alla maniera di Ungaretti». Si sente il vento. «At intesu su ventu / e lu cheriat tennere chin sa manu / ma si nche l’er fughiu». Pedru Mura morì nel 1966. Padre e figlio godono di meritata fama. Furono e sono entrambi vivide presenze al premio “Ozieri”. Venti anni fa le loro composizioni furono inserite nella mondadoriana Le parole di legno, un’antologia della poesia “in dialetto” del ’900 italiano. L’opera poetica di Antonio è raccolta in un solo libro ma quanto mai importante. Lo pubblicò a proprie spese nel 1971 per le “Edizioni Barbaricine” di Nuoro. Importante anche per la prefazione di Raffaello Marchi di cui Mura fu allievo e con cui collaborò, tra il 1947-‘48, per il periodico “Aristocrazia”. Il titolo del libro, sulla coperta color carta da pacchi, ideologicamente imposto da Marchi, era: Lingua e dialetto. Poesie bilingui. Nel 1982 fu tradotto in tedesco da Wolfgang Dietrich e pubblicato dalla Huber & Klenner di Monaco. L’edizione Ilisso del 1998, a cura di Maurizio Virdis, nella collana “Bibliotheca sarda”, riprende il titolo-tema che voleva dargli Antonio: Su birde. Sas erbas. Il verde e le erbe di una terra, kusta, inoche, che è «resto pietroso di tutto lo sconquasso di prima del diluvio». Il versificare di Mura è una parlata nuorese resa scrittura dura e aspra. A fronte, nelle pagine del libro, un italiano essenziale. In sardo, Antonio Mura traduceva Eliot, Auden, Neruda, Pavese, Fortini ma anche Le opere e i giorni di Esiodo. È uscito per la Cuec un libro con le sue traduzioni di Poesia interrompia di Paul Eluard e Campusantu marinu di Paul Valéry. «Ogni giorno» ricorda Nereide Spano «rientrava a casa con un volume nuovo. Diceva che glielo avevano regalato. Ma si vedeva che era comprato». Prima dei libri, nonostante tutto, ci sono l’uomo, la persona, la vita. Questa vita racconta con sobria eleganza Nereide Spano, in una stanza arredata di libri e di quadri, nella casa al numero 20 di via Tola, l’antica abitazione del canonico Giuseppe Ticca. Una vita che sa di durezza ma anche di luminoso, di “splendore dell’erba”, per riprendere lo stesso Mura. Una vita a tratti romantica. La famiglia degli Spano, di origine gallurese, abitava in una palazzina a Istiritta. Qui, da via Tola veniva Antonio Mura a fare ripetizione di francese e di inglese a Nereide Spano, una ragazzina allora. Tra lei e Antonio c’erano 15 anni di differenza. Antonio era ragioniere. Aveva fatto anche studi universitari, a Napoli, iscritto nella facoltà di Scienze economiche e marittime: una scelta sbagliata per uno che si sentiva ed era un letterato. Non si laureò mai perché mai riuscì a sostenere l’unico esame che mancava: matematica. Nella prima giovinezza fu comunista e andava in giro per i paesi del nuorese a fare comizi con Salvatore Nioi. A Napoli frequentò gli anarchici riuniti intorno alla rivista “Volontà”. Fu anche arrestato mentre distribuiva volantini di solidarietà con gli anarchici spagnoli allora perseguitati e repressi, anche con la garrota, dalla spietata dittatura di Franco: fece cinque giorni di galera e di questo resta testimonianza negli addobios delle poesie bilingui. Quando va a casa degli Spano, Mura ha già esperienze lavorative alle spalle, tutte all’insegna del precariato. Per un anno scolastico, dal 1962 al 1963, insegnò nelle scuole serali, al Crucis, a Oliena. Dava ripetizioni di inglese. Si innamorò di Nereide e si dichiarò in francese: «Je suis tombé d’amour, sono caduto in amore». E la ragazza Nereide: «Je non». «Sbagliato», replicò subito Antonio. «Non si dice je ma moi non». E scoppiò in una grande risata. «Faceva cose impossibili per me», ricorda la signora «Veniva sottocasa fischiettando Douce France. Io mi affacciavo alla finestra e calavo al basso uno spago con legato un foglio dove lui mi scriveva tenere frasi d’amore». Si sposarono nel 1963, con rito civile, nel Comune che allora era al Corso, nell’attuale sede del Banco di Sardegna. Il sindaco, l’ingegnere Moncelsi, regalò alla sposa che aspettava il primo figlio un mazzo di garofani rossi. Fuori attendevano funzionari e colleghi della Camera di commercio dove allora lavorava la giovane Nereide, che niente aveva detto loro del matrimonio. Uscirono dal Comune in un clima di intesa commozione. Tonino emigrò subito in Germania, dopo il viaggio di nozze che fecero a Isili. Fece quattro mesi «i’ ssas terrar frittar dessu nord Europa». Era Hilfsarbeiter, aiuto-operaio nella fabbrica della Wolskwagen. In kussu iskurikore, in quella tenebra, «ho appreso come muore la luce / e come nasce un giorno già alto nella rumoreggiante officina». Il poeta apprende pure «la misura esatta d’essere fratello/degli uomini pronti alla giustizia». Smerigliava parafanghi d’automobile. Il sudore si impregnava con la polvere del ferro. Ritornò a casa «con gli indumenti diventati color ruggine» ricorda la moglie. Quando Tonino ritornò a Nuoro, Nereide aveva già parlato con Bustianu Sanna, preside dell’Istituto tecnico cittadino e anche della succursale, ancora a Isili. Qui Antonio Mura insegnò inglese, ragioneria e persino matematica. Rientrava a Nuoro una volta la settimana. Non finì l’anno scolastico perché ci fu un ricorso. In questo andalibeni di partenze e ritorni, l’intensità della vita di Mura si consumava oltre che nelle attenzioni per la giovane moglie e per il piccolo Ludovico anche nella letture e nella scrittura. «Mi rendeva orgogliosa che lui fosse un uomo colto, un intellettuale», dice Nereide Spano. Finita l’esperienza di insegnamento, Antonio Mura entrò a fare il ragioniere, “per sbaglio”, nella Camera di commercio, dove si occupò tra l’altro anche del patronato Enarco. Leggeva e scriveva. La moglie trovò impiego all’INPS. Vennero gli altri figli: Luca, Tomas e Alessandra. I genitori li fecero battezzare tutti e don Cabiddu chiamava Tonino “compare”. Antonio Mura iniziò a star male nel 1972, quando cominciò un altro peregrinare per gli ospedali di Bologna. Era affetto da plasmocitoma, una forma di leucemia. Ebbe anche l’illusione di guarire. Ma fu solo un’illusione. Morì a Bologna l’11 dicembre del 1975. I funerali furono laici, senza prete, una folla immensa dalla casa di via Tola sino a Sa ’e Manca. Disse una volta tzia Battistina Ladu, vicina di casa e di officina, a Nereide: «A Tonino una missa bi la do. Prus cristianu de isse non bi n’at», “più cristiano di lui non ce n’è”.
Romano Ruju Nell’opera di Romano Ruju, partecipazione emotiva e distacco significano la coscienza e la conoscenza della storia che dialogano con la capacità del mezzo, la scrittura, sulla possibilità di descrivere e di comprendere la solitudine: le solitudini del sé come individuo e del sé che appartiene a una terra senza fortuna, chene sorte, malaefafada, per dirla con Francesco Masala che di Ruju è stato ed è sodale, affine in pensiero, sentimenti, ed opera. Solitudine e sorte ma anche ribaltamento e ribellione, attivazione degli spiriti e dei sensi della rivolta contro tutte le oppressioni. Gridare ragionando, calibrando, musicalmente quasi, il timbro di una voce, di più voci. Mamma mia su moro... La nostra terra è questo disperato tumulto... cantate e ballate voi... Abbiamo lottato per il sorriso dell’uomo / per il sorriso dell’uomo.
In Ruju c’è l’urgenza di dire queste cose. Quasi davvero siano state per lui, Nuoro e le sue estensioni, il luogo-tempo dell’avveramento del terribile sogno che ciascun adolescente coltiva come rosa e come spina: il triste presagio della morte, il morir giovane come massima gratificazione. «Piano piano mi convinco che non potrò che fare il poeta, nei pochi anni di vita che mi restano». Così nel romanzo Il salto del fosso. Il veterinario Luisi Farina. Dottor Luigi Farina, familiarmente tziu Luisi, veterinario, scrittore di vocabolari, da ultimo ricercatore archeologico, è morto nel 1994, in età avanzata. La sua memoria durerà a lungo. Fu personaggio per tutte le stagioni e su di lui esiste vasta aneddotica. Per gli scherzi e le beffe che ordiva da studente universitario ma anche per la sapienza delle sue parole. Sia che le dicesse a voce oppure le scrivesse. L’essere caustico si mescolava in lui con una grande capacità dialettica e didattica. Si portava appresso la fama di tante “recite” in età giovanile, magari in quel teatro naturale che è il Corso, in luoghi classici come bar, edicole e farmacie. Ma fu pure, in età matura, titolare di una rubrica sull’importanza della lingua sarda a Radio Barbagia, “cada jobia a sas chimbe ’e bortadìe”. Parlava a tutto campo dell’importanza della satira. Lo faceva usando un lessico nuorese dove figurano termini come medischìa, per dire della supponenza di certa gente, oppure inzaschìa per definire una persona capricciosa. E ancora irmugiu per la poesia di stroncatura, chi cheret narrere chin su sale e che quindi ha che vedere con la salamoia. Sempre a proposito di atteggiamenti da hidalgos di certe persone, dottor Farina parla di “banosos, borrumballéris e abbascaramenaos”. Per inverso, un poeta come il bittese Remunnu ‘e Locu, remitanu e autore di roventi satire, è per tziu Luisi palicoriattu, quasi letteralmente “uno che ha le spalle indurite”. Per sopportare molti pesi. Capitava di incontrare dottor Farina in diversi punti della città. Da solo o in compagnia. Dicevi una parola e subito ti faceva l’etimologia. Il sacro si mescolava al profano, il serio al salace, il lieve al pesante. L’ultima volta che lo vidi e lo stetti ad ascoltare fu a una lezione sull’acqua e sul vento che tziu Luisi dedicò ai bambini delle scuole elementari di Santu Predu. Doveva essere il 1992 e fu un grande lezione. Abba e bentu sono due parole che abbondano nel lessico del nostro mondo tradizionale. Proverbi, racconti, canzoni. C’è tutto un universo da cui attingere, una geografia storica dove hanno soffiato diversi tipi di vento e un territorio da molte acque innervato. Acqua e vento ma anche i loro contrari: la siccità-siccagna, la calura, il fuoco. Si diceva che “bentu bosanu battit abba”. Dai pozzi nascevano figure fantasmatiche. C’erano acque ferme e altre medicamentose. Durante i temporali venivano recitate “sas doichi paraulas”. C’è un vasto patrimonio di berbos ma anche di contos su poios, rivos e trajnos, mannos et minores. Si parla d’acqua ma necessario è il vento. Se conosciuti, acqua e vento servono per orientarsi. Di questo era convinto dottor Farina. «Io», disse quel giorno ai bambini di Santu Predu, «mi siedo al centro». Il centro, raffigurato dentro un quadrato, è Nuoro. «Mi siedo al centro con le spalle a nord per non prendere il vento freddo in viso». Nord come settentrione, come tramontana, «il freddo più freddo». Ma anche come condizione indispensabile, tra realtà e favole, come se ne conoscevano un tempo. «Se uno si trova sperduto nel bosco», affabulava il vecchio, «può notare sulle rocce o che sopra alcuni alberi sono cresciuti muschi, licheni e talora pure felci. Quella è sicuramente la parte più fredda: cioè il nord». La lezione diventava sempre più racconto. Dottor Farina parlò dei punti cardinali al singolare e combinati tra di loro. Facendo entrare l’acqua e il vento nel discorso, dimostrò ai bambini come in questo gioco di combinazioni anche italiano e sardo possono mescolarsi. C’era di che restarne affascinati.