Di Angela Terrosu Asole
STORIA E GEOGRAFIA
DEI COMUNI DELLA SARDEGNA

Una legge emanata nel 1859, regolamentando nelle terre sottoposte al governo piemontese la giurisdizione degli organismi preposti all’amministrazione pubblica, precisa, tra l’altro, l’organizzazione e i compiti di talune figure giuridiche attinenti all’amministrazione del territorio e cioé delle Province, dei Circondari, dei Mandamenti e dei Comuni. Si trattava di figure talora di nuova istituzione e tra l’altro già esistenti nella pratica: ma è in questo momento che esse acquisiscono un assetto legislativo meglio puntualizzato. Fa parte di quest’ultimo gruppo la figura del Comune, l’unità territoriale più piccola in cui si suddivideva il territorio del regno sardo. La sua originaria creazione, che vede il Comune come espressione della volontà dello Stato, e non di privati cittadini quale era stato nel Medioevo, risale però al secolo XVIII e più precisamente all’anno 1771, quando anche il Piemonte decise di adeguare la propria amministrazione pubblica ai nuovi dettati espressi dalla corrente illuministica. Con questa legge la Sardegna veniva pertanto suddivisa in Comuni, una figura giuridica adottata per segnalare quanto in precedenza era definito più genericamente come villa con le relative pertinenze, espressione usata sin dal Medioevo per indicare da una parte l’area abitativa con la sua popolazione e dall’altra i territori rurali ad essa annessi in funzione agro-pastorale di coloro che risiedevano in quella. Ma se per un verso è molto difficile, soprattutto a causa delle carenze documentarie, stabilire da un punto di vista cronologico il momento della nascita degli attuali villaggi sardi nonché il motivo che vi avrebbe presieduto, ancora più arduo risulta stabilire l’ampiezza dell’agro ad essi collegato. Può darsi che in origine, quando il suolo a disposizione era ancora tantissimo, quest’ampiezza sia stata valutata sulla base di un rapporto tra abitanti e terre da utilizzare per la semina, per il pascolo e per il legnatico, e che quindi le aree di pertinenza abbiano variato con il variare della consistenza demografica del rispettivo villaggio. Ma il succedersi degli eventi dovrebbe aver rotto abbastanza rapidamente questo equilibrio tra produzione e consumo, determinando probabilmente rapporti maggiormente agressivi, quelli determinati dal prevaricare degli abitati più forti su quelli più deboli.
Al tempo di Roma. Per i tempi più remoti, quelli preclassici, per i quali molto poco si sa agli effetti dei villaggi minori, sono tuttavia note le lotte che con frequenza avvenivano tra tribù confinanti proprio per il possesso delle terre, essendo queste non solo un elemento di sicurezza ai fini dell’alimentazione, ma anche un simbolo di potere. Con l’avvento della dominazione punica e poi di quella romana la conoscenza delle aree di pertinenza di ciascun abitato acquisisce una nuova importanza direttamente derivata dall’applicazione del sistema fiscale. È noto, attraverso testimonianze scritte, che i sardi erano tenuti al versamento di più tipi di contributi. Per l’assunto in questione sono importanti i seguenti: quello che dovevano versare a titolo di punizione per la guerra sostenuta contro Roma, ossia lo stipendium , una sorta di tassa sui danni di guerra, che corrispondeva al versamento annuale di un tributo dell’ammontare stabile nel tempo e la cosiddetta “decima”, dovuta in qualità di paese sottoposto a Roma e che già era stata pretesa da Cartagine i secoli della sua dominazione. La riscossione di questi tributi, che nel primo caso avveniva attraverso funzionari statali e nel secondo soprattutto tramite appaltatori privati, vedeva chiamate a risponderne tutte le popolazioni diversamente distribuite nell’isola. È indubbio quindi che Roma disponesse non solo di esatte informazioni nei riguardi del numero di individui che componevano ciascuna popolazione, ma che fosse informata anche sulla loro esatta collocazione territoriale e che avesse, infine, conoscenza dei limiti del territorio rispettivamente occupato. Limiti che erano affidati a documenti scritti nonché a cippi confinari, di cui la copia depositata a Roma presso l’Archivio del Catasto costituiva il punto di riferimento in caso di controversie. Roma, pertanto, aveva valutato la componente territoriale e quella umana, dalla cui fusione sortivano le vaste entità amministrative. Ma quale attenzione dedicava alle piccole unità che pure dovevano esistere? È indubbio che essa dovesse disporre di tutto il quadro insediativo sardo, ed infatti anche per l’isola avrebbe adottato termini di qualificazione assai precisi e puntuali: oppida per segnalare le città, pagi per individuare i villaggi, vici per contraddistinguere gli agglomerati minori e forum per annotare i coaguli di tipo anche commerciale. Poco si sa, invece, nei riguardi delle estensioni territoriali che erano loro legate e, soprattutto, se queste fossero esattamente delimitate. Nessun lume proviene nemmeno dall’istituto della centuriato che la città del Tevere certamente realizzò anche in Sardegna, quantomeno nel retroterra di Turris Libisonis (attuale Porto Torres) e di Tharros, ma di cui ben poco è rimasto sul terreno, se si esclude il tratto immediatamente afferente al complesso urbano turritano. Non si conoscono, infatti, i valori delle maglie dei reticolati sardi, come neppure si hanno valutazioni che aiutino ad individuare il saltus verso cui l’area lottizzata sconfinava. Riepilogando quanto al momento attuale è dato sapere nei riguardi delle piccole unità amministrative durante l’età classica si è costretti a riconoscere una situazione di totale incertezza agli effetti dei terreni che comunque anche allora erano certamente legati ad ogni forma di vita abitativa.
Il Medioevo. Purtroppo a questo riguardo le lacune permangono a lungo anche per i tempi successivi, come, ad esempio, quelli relativi al periodo della influenza pisana, per i quali più tipi di fonti, ed in particolar modo quelle fiscali, risultano notevolmente generose di dati e di informazioni. Queste fonti hanno infatti consentito la ricostruzione di tutte le ville, ossia degli abitati maggiori, nonché di un numero abbastanza notevole, anche se non certo completo, di agglomerati minori o, come allora si definivano, di domestie e di donnicalie. L’incompletezza delle informazioni specifiche rende tuttavia limitatamente utilizzabili anche i dati forniti dai registri dei tributi redatti da Pisa per i suoi possedimenti sardi. Ormai si sa che le imposizioni fiscali corrispondevano a una percentuale: probabilmente ancora una volta la decima parte delle rese che mediamente erano in grado di raggiungere le produzioni cerealicole e quasi certamente anche quelle viticole. Questa percentuale rimase invariata a lungo come, del resto, rimase la valutazione delle rese medie. Tale tipo di valutazione non richiedeva, infatti, frequenti opere di aggiornamento. Queste sarebbero state pretese, tutt’al più, se si fosse avuta la messa a coltura di nuove, vaste estensioni territoriali o se l’intervento di più moderne tecniche avesse rivoluzionato i calcoli delle rese medie precedenti. L’ingegnoso sistema fiscale adottato da Pisa, facendo sì che a rispondere di fronte al Comune toscano non fossero i singoli produttori, ma i rappresentanti delle comunità, i quali, a loro volta, si rifacevano sui singoli, e più ancora che l’elemento maggiormente significativo fosse il prodotto, e non il suolo che pur dava luogo al prodotto, ha distratto la documentazione e impedito per lunghissimo tempo sia la nascita di una cartografia rurale sia la scrittura di documenti relativi alla delineazione dei confini dei villaggi. Lo prova l’esistenza di una pur copiosa documentazione che tuttavia accenna solo in modo generico alle “pertinenze territoriali” delle ville sarde e, di contro, il silenzio pressoché assoluto sulla loro ampiezza e delimitazione. Una situazione quindi alquanto ambigua, almeno all’origine, che dovrebbe aver dato luogo a non pochi soprusi di cui rimane qualche traccia seppur rara nelle fonti relative alle liti sorte per questioni di confine tra villaggi limitrofi. L’uso di delimitare per iscritto i terreni tuttavia esisteva ma, come nel periodo romano, solo agli effetti di vaste superfici. Così quando nel secolo XII Torchitorio, giudice di Cagliari, fece donazione al figlio Salusio di Lacon della Incontrada di Trexenta, in previsione del matrimonio che questi doveva contrarre con Adelasia di Torres, alla presenza di un notaio fu stilato un atto nel quale vennero precisati i confini dell’area donata e le relative caratteristiche. Da questo atto si può dedurre che il territorio mediamente annesso ad ogni abitato in questa prospera area dell’isola corrispondeva a circa 700 ettari. Una superficie che differiva da quella attuale in quanto nel secolo XIII, allorché il documento fu steso, il numero delle ville che facevano parte di questa regione era pari a una quarantina (contro gli attuali 13 comuni): fatto, comunque, che non presume processi di risuddivisione, ma che andrebbe piuttosto collegato alla tradizione sarda che voleva i suoli di pertinenza dei villaggi di decadenza legati amministrativamente all’abitato adiacente, in cui confluivano le genti dei centri abbandonati. Il dato medio scaturito dal documento relativo alla Trexenta naturalmente non ha valore per tutta la Sardegna.
La dimensione territoriale di ogni villaggio, dovendo garantire, come si è detto, l’alimentazione a coloro che risiedevano nella parte edificata, necessariamente variava a seconda della fertilità dei suoli. Ne consegue che le pertinenze degli abitati siti nelle sassose aree di montagna erano, come del resto ancora oggi, assai vaste, mentre erano piuttosto piccole quelle che si distendevano sui prosperi suoli delle piatte superfici del Campidano. L’impressione che tuttavia si evince da questo documento è data dal prevalere di confini di tipo morfologico. Confini, cioé, appoggiati in primo luogo a crinali di rilievi e a corsi d’acqua, e solo secondariamente a strade. Altra impressione è data da un certo prevalere del potere contrattuale degli abitanti più forti, i quali sarebbero riusciti a far coincidere con delineazioni per loro più convenienti i confini delle terre appartenenti ai propri villaggi. Ugualmente appoggiati a elementi soprattutto fisici risultano i confini delle vaste aree agricole che nei primi secoli dell’attuale Millennio sono state donate dalle autorità governative sarde a Ordini religiosi per lo più della Penisola. Questi confini, la cui delimitazione è a noi pervenuta attraverso i Condaghi, cioé registri tenuti da monasteri, appaiono infatti affidati soprattutto a corsi d’acqua, a guadi, a emergenze del terreno, a sorgenti, ad alberi isolati, ecc., ma anche a nuraghi, chiese, proprietà private, pietre miliari, viottoli campestri. Comunque anche questo tipo di fonti, per tanti versi preziosissimo proprio nei riguardi di uno studio sulle delimitazioni delle aree agrarie, non contiene segnalazioni precise circa i confini dei territori legati ai villaggi. Nessuna informazione proviene nemmeno dall’atto di fondazione del villaggio di Burgos, risalente al 1353. L’atto precisa che il giudice Mariano d’Arborea si premurò di dotarlo dei necessari terreni per il seminerio, l’allevamento e il legnatico, ma non contiene la delineazione dei confini e rimanda per questo argomento ad un’altra fonte, forse cartografica, che purtroppo si è persa.